In silence, with realistically very different numbers from the official ones, the Covid-19 pandemic is spreading also in Africa. There are 5,360 confirmed cases – as of April 2, 2020 – in 44 African states, with at least 150 deaths. The five officially most affected countries are South Africa, Algeria, Morocco, Egypt and Tunisia, but they are to be taken with due caution because if there is a place in the world where Coronavirus can be even more subtle, and set off a perfect storm , that is Africa. The reason is composed of a set of causes, starting from the fact that in Africa respiratory infections – those affecting the airways and lungs – are the main cause of death.
Ne abbiamo parlato con Guglielmo Micucci, direttore generale di Amref Health Africa in Italia. “I numeri reali sono probabilmente molto superiori rispetto a quelli dichiarati, per difficoltà di riconoscimento e monitoraggio del virus. Inoltre, seguite dall’HIV, le infezioni respiratorie sono la causa principale di morte nel continente africano. Le malattie più comuni dovute a queste infezioni sono la bronchite e la polmonite, malattie che condividono i sintomi con Covid-19. Per questo motivo è difficile distinguere i casi ‘normali’ di decessi per polmonite dai casi di decessi legati a Covid-19”.
A tutto ciò si aggiunge la carenza di letti in terapia intensiva e la fragilità di sistemi sanitari che non sono attrezzati in maniera adeguata per poter far fronte a una crisi del genere. Per fare un esempio, di letti in terapia intensiva se ne contano solo 155 in Kenya, tra pubblico e privato, 50 in Senegal, 38 in Tanzania, 45 in Zambia e 0 in Sud Sudan. “Questo – prosegue Micucci – è uno dei motivi per cui Amref, in questi giorni, sta tentando di potenziare il processo di monitoraggio in Sud Sudan, grazie a test e analisi di laboratorio. Tuttavia, nel caso di positività dei test, il sistema sanitario sud sudanese, come quello di molti altri Paesi, non avrà la possibilità di sostenere i soggetti identificati. Nessuna struttura all’interno dello Stato è attrezzata, purtroppo, per far sì che il Sud Sudan abbia la possibilità di agire come, per esempio, sta facendo l’Italia: potenziando le terapie intensive e intubando, eventualmente, i soggetti bisognosi”.
Il confronto con i nostri sistemi sanitari è impietoso. Lo dicono i numeri: basti pensare che il continente africano ospita solo il 3% del personale medico mondiale, nonostante sopporti oltre il 24% del carico globale di malattie. In Guinea, Liberia e Sierra Leone (i tre Stati più colpiti dall’emergenza Ebola) ci sono 4,5 medici ogni 100mila abitanti. La media italiana è di circa 376 medici ogni 100mila abitanti. Le malattie infettive sono la causa del 40% dei decessi nei Paesi in via di sviluppo – l’1% in quelli industrializzati.
Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’OMS, ha avvertito che “se il virus dovesse arrivare nelle metropoli africane come Lagos, Addis Abeba o Il Cairo, visto anche il livello di povertà e la carenza di strutture ospedaliere, il contagio diventerebbe una catastrofe”. Per questo “il miglior consiglio per il continente africano è prepararsi al peggio e farlo subito”. Una preoccupazione condivisa in pieno dal numero uno di Amref Italia: “L’Africa si deve preparare al peggio. La speranza è che il peggio non arrivi, ma dobbiamo essere pronti”. Secondo Micucci, il rischio che l’epidemia raggiunga i livelli europei c’è ed è concreto: “Nei Paesi africani c’è un livello più elevato di informalità e banalmente di promiscuità, dato che all’interno dei villaggi prevale uno stile di vita basato sulla comunità piuttosto che sulla vita familiare ristretta. Il rischio che il contagio sia molto veloce è quindi verosimile, soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, in cui l’accesso all’informazione e la possibilità di formazione sono limitati”.
Dopo la dichiarazione di ‘pandemia’, anche la maggior parte dei governi africani è corsa ai ripari, implementando pesanti misure di distanziamento sociale in modo da appiattire la curva il più rapidamente possibile. “Tra queste – spiega Micucci – la chiusura delle scuole, la limitazione di trasporti urbani e interurbani, l’implementazione di coprifuochi e altre. Si rendono conto che i sistemi sanitari non saranno in grado di far fronte alla crisi se i casi continueranno ad aumentare”.
La mente corre a qualche anno fa, alla crisi dell’epidemia di Ebola nella zona occidentale dell’Africa, tra il 2013 e il 2016. “Noi di Amref, che lavoriamo per sostenere i sistemi sanitari, in quell’occasione ci rendemmo conto, appena arrivati in Senegal, che i sistemi sanitari erano collassati”, ricorda Micucci. “Dopo i primi casi di Ebola, la categoria più vulnerabile, più colpita, era quella degli operatori sanitari. Soprattutto all’inizio, quando ancora non c’era consapevolezza della dimensione dell’epidemia, né c’erano gli strumenti e le attrezzature necessarie per poter rispondere alla crisi. Ci trovammo quindi, come da programma, a intervenire attraverso la formazione del personale sanitario, quando però il personale era stato decimato. Una sensazione terribile: non solo di insicurezza, ma di impossibilità”.
Una sensazione che rischia di tornare ancora, di fronte all’assenza di dispositivi sanitari individuali che annulla anche solo la possibilità di potersi avvicinare ai soggetti positivi. Nel caso di Covid-19, poi, preoccupa la natura particolarmente subdola della malattia. Osserva Micucci: “Il virus Ebola si trasmette alle persone attraverso il contatto con animali infetti, o attraverso lo stretto contatto con sangue, secrezioni, tessuti, organi o fluidi corporei di persone infette. Il Coronavirus, contrariamente, si presenta con febbre stanchezza e tosse, e si trasmette per via aerea; questo lo rende meno visibile, meno riconoscibile e più ‘subdolo’. L’insidiosità del Coronavirus è inoltre dovuta al fatto che i sintomi non si presentano in maniera immediata, ma dopo qualche giorno. Per questo motivo, la diffusione del virus è ‘nascosta’. Inoltre, in un contesto come quello di vari Paesi africani, è difficile distinguere i casi ‘normali’ di decessi per polmonite dai casi di decessi legati a Covid-19”.
Amref sta lavorando su due fronti: da un lato ridurre la disinformazione all’interno delle comunità locali; dall’altro incrementare il più possibile il personale sanitario per poter arginare la pandemia. “Utilizziamo un programma di e-learning attivo già da qualche anno denominato Leap”, spiega Micucci. “Attraverso questa piattaforma puntiamo a monitorare la diffusione della malattia, fare una diagnosi anticipata laddove necessario e fornire indicazioni per le cure necessarie”.
In tutto questo pesano terribilmente le difficoltà nell’accesso all’acqua che limitano la vita di centinaia di milioni di persone nel continente africano. Anche in questo caso, i dati parlano da soli. Nel 2015, solo il 23.7% della popolazione dell’Africa Sub-Sahariana aveva accesso a servizi idrici sicuri, contro un tasso mondiale del 71%. Circa 263 milioni di persone trascorrono 30 minuti al giorno per andare a raccogliere l’acqua da strutture idriche sicure; 159 milioni di persone ancora raccolgono acqua da bere direttamente da fonti di superficie, il 58% (oltre 92 milioni) di loro vive nell’Africa Sub-Sahariana. Nelle campagne e nelle zone aride lontane dalle grandi città dell’Africa Sub-Sahariana ci sono circa 339 milioni di persone che hanno sete, 437 milioni senza accesso ai servizi igienici di base e 535 milioni senza la possibilità di lavarsi le mani con il sapone nelle proprie case. In Sud Sudan, a causa della scarsità di infrastrutture, solo il 41% della popolazione ha accesso ad acqua pulita e solo il 7% adotta abitudini igieniche adeguate.
Sul campo Amref è impegnata in una serie di progetti idrici legati alla campagna “Dove c’è acqua la vita scorre”: il progetto SANI (su sicurezza alimentare, nutrizione e igiene per le comunità della fascia Equatoriale del Sud Sudan), il progetto SMART (intervento integrato su informazione sanitaria, sviluppo rurale e trasformazione nella Regione di Gambella, in Etiopia), e supporto alla resilienza delle popolazioni che vivono in situazioni di emergenza siccità con attività di sussistenza sostenibili nella contea di West Pokot, in Kenya. Non solo: Amref collabora anche con il Water Grabbing Observatory nel contrastare il fenomeno del “water grabbing”, letteralmente “accaparramento dell’acqua”: attori potenti prendono il controllo (o deviano a proprio vantaggio) risorse idriche, e un bene comune come l’acqua si trasforma in un bene privato o controllato da chi detiene il potere. In collaborazione con l’Osservatorio – spiega Micucci – “Amref sta raccogliendo firme che verranno consigliate al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, per chiedere di mantenere alta l’attenzione sul tema del diritto umano all’acqua e di rafforzare il lavoro di sensibilizzazione sull’opinione pubblica italiana. Amref si rivolge alle istituzioni affinché si mobilitino per garantire in Africa, come in Italia, acqua potabile e sicura a tutti con maggiore attenzione alle persone più deboli e in difficoltà economiche”. Perché la verità è che no, non saremo mai tutti uguali di fronte a una pandemia, fino a quando ci saranno posti nel mondo in cui lavarsi le mani è un lusso di pochi.
Article first published on https://www.huffingtonpost.it/entry/covid-19-africa_it_5e86fc7ec5b6d302366dffc1
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