«Siamo stupefatti, guardiamo all’Europa e ci sembra un film di fantascienza, non riusciamo a credere che sia la realtà: com’è possibile che con tutte le possibilità sanitarie e tecnologiche che avete vi stia succedendo questo?». Le parole di Ahmed Abdelbar, che fa la guida turistica e ci scrive dal Cairo, Egitto, riassumono il sentire di moltissimi africani. Dallo stupore alla paura, il passo è breve.
Dall’Organizzazione Mondiale della Sanità alle Ong che operano nel Continente, dai governi fino ai semplici cittadini, l’angosciosa domanda che tutti si pongono in questi giorni è la stessa: se l’Occidente fatica a gestire l’emergenza, cosa accadrebbe se la diffusione del virus assumesse proporzioni ancora maggiori in Africa? Al momento (ma sul sito dell’OMS i numeri cambiano letteralmente da un giorno all’altro) i contagiati sono più di 7.200 e i Paesi più colpiti sono agli estremi nord e sud: Egitto (985 casi) e Sudafrica (1.505). E sebbene ci si aggrappi alla speranza che il virus non ami il caldo e che l’età media degli abitanti del continente (18 anni, con un’aspettativa di vita di 65) possa evitare la catastrofe, in realtà tutti i governi, con tempistiche diverse, stanno mettendo in atto ogni misura precauzionale possibile: chiusura degli spazi aerei, delle frontiere, delle scuole e dei luoghi di culto, divieto di assembramenti, coprifuoco. E soprattutto stanno compiendo, in collaborazione con le tante organizzazioni attive sul territorio, un’attività capillare di sensibilizzazione.
«Noi agiamo sia a livello clinico ed epidemiologico, sia a livello di informazione della cittadinanza», spiega da Nairobi, in Kenya (122 casi) il dottor Githinji Gitahi, Global Ceo di Amref Health Africa, la più grande organizzazione sanitaria africana che opera nel continente. «E questa è la parte più difficile, perché si fa presto a passare le informazioni ma il cambiamento delle abitudini di vita è lentissimo. In generale mi sembra che ci sia un buon livello di consapevolezza di quanto accade: qualche giorno fa ho parlato con alcuni bambini di 5/6 anni, mi hanno detto che conoscevano il virus e che sapevano come proteggersi. Ho domandato loro se sapevano da dove veniva e mi hanno risposto: dalla Cina. Seppure con qualche malinteso, la gente sta iniziando a comprendere, anche se c’è ancora qualcuno, specie nelle zone rurali, che pensa che sia tutta un’invenzione.
Al momento gli sforzi di tutti sono mirati a evitare che il virus, arrivato qui dall’Europa, si propaghi all’interno delle comunità locali. Perché in quel caso l’unica soluzione, anche in Kenya, sarebbe il lockdown, ma in zone come Kibera (il più grande slum di Nairobi, ndr) sarebbe impossibile. E c’è anche un’altra cosa da tener presente, a proposito di lockdown: mentre nei Paesi occidentali la maggior parte delle attività economiche si svolge su un piano formale, quindi i lavoratori pagano le tasse e sono protetti dalla legge, in Africa l’80% del lavoro è informale. In pratica se non vai al mercato a vendere la tua merce o non esci a fare il tuo piccolo business, non guadagni. Quindi se si dovesse pensare a delle misure molto restrittive, i governi dovrebbero ragionare su come garantire la sopravvivenza delle persone, dato che poche sono impiegate regolarmente», specifica Gitahi.
L’aiuto delle comunità locali è fondamentale per diffondere la corretta informazione sul virus e sui comportamenti da seguire. In città, ma anche fuori. «In molti Paesi africani le persone vivono lontane dalle strutture sanitarie, per questo Amref ha creato dei gruppi di volontari di comunità (Community Health Volunteers), che sono preparati per rispondere alle domande della gente. Essendo volontari, ognuno di loro ha il proprio lavoro, dunque abbiamo pensato a un modo per formarli a distanza attraverso i cellulari, anche in mancanza di connessione internet, per esempio con gli sms. La piattaforma messa a punto si chiama Leap e al momento l’abbiamo utilizzata con 70 mila volontari», conclude Gitahi.
Che la migliore pratica per una comunicazione efficace sia parlare vis à vis con le persone lo conferma dal Senegal (219 casi a oggi) il dottor Diop Cheikh Sadibou, responsabile del Centre de Santè di Camberéne, a Dakar. «L’altro giorno io e i miei colleghi siamo andati in giro per i quartieri della zona, con un’auto, un’ambulanza e un megafono. Abbiamo spiegato agli abitanti che devono evitare di riunirsi per strada a bere il tè, che non devono uscire tutti i giorni per fare piccoli acquisti e devono stare il più possibile in casa. Qualcuno capiva, altri continuavano a sminuire, dicendo che si tratta di una malattia dei bianchi, che non colpirà i neri. Il 23 marzo, però, il presidente ha dichiarato lo stato di emergenza, dunque vedremo cosa succederà. Io sono preoccupato per le città più che per le zone rurali. Perché i grandi mercati, i grandi raggruppamenti di persone avvengono qui ed è qui che c’è un grande passaggio di stranieri. È difficile che un europeo giunga nei villaggi più remoti e in ogni caso l’arrivo di “estranei” lì è più facile da controllare. Per ora sembra, infatti, che le zone rurali siano risparmiate, anche se non possiamo esserne certi, poiché lì non vengono effettuati i test».
Sempre dal Senegal, Marieme Sané, Coordinatrice di zona nella regione di Kolda per Amref, ci fornisce un altro sguardo. «In realtà il vantaggio delle città è che si vive in case dotate di porte, quindi è possibile proteggersi. Nei villaggi, invece, si vive e si dorme tutti insieme. Devo dire però che il nostro stile di vita è in generale molto comunitario e questo rende sicuramente più difficile mettere in pratica azioni di prevenzione come il mantenimento delle distanze. Nella mia esperienza la gente sta iniziando a preoccuparsi seriamente: dai primi casi in Senegal si sono moltiplicate le preghiere e i sacrifici. Qualche guida religiosa ha pure iniziato a diffondere l’idea che si tratti di una punizione divina e che per sconfiggere il virus bisogna mettersi sulla strada di Dio e pregare. Il vantaggio di Amref è che può contare sui rappresentati delle comunità locali per fare una corretta informazione nei quartieri e nei villaggi».
Da Lomé, in Togo (39 casi), Elsa Akade, una 25enne con il sogno di studiare in Italia, conferma: «Settimana scorsa sono uscita per comprare da mangiare e la commessa aveva guanti e mascherina: uno degli altri clienti l’ha subito giudicata male. Le ha detto: “Voi avete troppa paura: questo virus lo hanno prodotto i bianchi e resterà con loro, forse voi non credete in Dio, altrimenti non saresti preoccupati”. In quel momento ho capito che tante persone non si rendono conto dell’enormità di quanto sta accadendo. In Burkina Faso, Paese vicino al nostro, ci sono già diversi casi, ma in tanti qui pensano che la cosa non ci riguardi e che i neri siano tendenzialmente più resistenti alla malattia. Ma non è con questa mentalità che potremo fermarlo, questo virus».
In Burkina Faso (302 casi per ora) dal 20 marzo vige il coprifuoco dalle 19 alle 5 del mattino. Non tutti lo rispettano e da subito sui social network sono stati diffusi video amatoriali che riprendono le violenze dei militari contro chi trasgredisce. «Fanno bene, le regole vanno rispettate. Se si diffonde la malattia, come faremo a vivere?» dice Bassita Dao, che abita a Bobodioulasso e al momento non può svolgere la sua attività, ovvero cantare durante matrimoni e battesimi.
Che non tutti comprendano la portata del problema e continuino a uscire nonostante i divieti può forse essere comprensibile in Paesi che non sono certo nuovi alle emergenze sanitarie. «Ho l’impressione che qui non sia ancora scattato il panico come in Italia perché c’è molta più abitudine alla morte e alla malattia», riflette Luisa Gregori, insegnante di italiano che da 5 anni vive a Lomé, in Togo. «Chi non ha i soldi per curarsi muore di malaria, qualche anno fa c’è stato Ebola, quindi credo che il coronavirus venga considerato una delle tante, possibili cause di morte. Però in città le norme igieniche si stanno diffondendo: già settimana scorsa all’ingresso del supermercato c’era una commessa che spruzzava il gel disinfettante sulle mani di chiunque entrasse».
L’esperienza fatta nella gestione del terribile virus Ebola che ha colpito molti Paesi del Continente dal 2013 al 2016 si sta rivelando utile, oggi, per gestire il coronavirus. Non solo a livello di procedure (nella Repubblica Democratica del Congo, per esempio, si stanno utilizzando strutture e protocolli già sperimentati per Ebola), ma anche di comunicazione. Lo conferma dalla Guinea Conakry (52 casi per il momento) Siba Alexis Dopavogui, Chargé des Programmes per la Caritas e coordinatore del Progetto per la lotta contro la migrazione irregolare in Guinea finanziato dalla CEI: «All’epoca furono commessi degli errori di comunicazione che crearono confusione tra la popolazione. Media e organizzazioni (governative e non) diffusero messaggi diversi. Qualcuno diceva che per il virus non c’era rimedio. Altri che si poteva curare. Così quando fu chiesto alla popolazione di rivolgersi agli ospedali in caso di problemi, si era già sparsa la credenza che non valesse la pena: anzi, che fosse proprio negli ospedali che ci si ammalava. Così molti, al posto di farsi visitare, si spostavano da una regione all’altra del Paese oppure addirittura scappavano nei Paesi vicini: e questo aumentava il rischio di contagi. Quell’errore iniziale ci permette oggi di coordinarci in maniera diversa, a livello di organizzazioni che operano sul territorio, in modo che il messaggio siano univoco».
Viene spontaneo chiedersi quanto ciò che sta accadendo incida sui progetti migratori dei tanti giovani africani che fino a pochi mesi fa vedevano l’Europa come il luogo nel quale realizzare di una vita migliore. «È evidente che oggi nessuno ha voglia di partire: si è scatenato il panico. Le cose possono cambiare rapidamente, ma al momento si preferisce sicuramente aspettare», risponde Dopavogui.
Aspettare, quindi. Non rinunciare. «No, i progetti dei ragazzi che sognano di andare in Europa non cambieranno. Neanche i miei. Prima o poi dovremo tornare a vivere normalmente e a meno che non diventi davvero impossibile – ma spero che non si arrivi a questo punto – io chiederò il visto per motivi di studio. Vorrei frequentare l’università di Pavia oppure a Siena», racconta la togolese Elsa Akade. «Qui ci sono due sole università pubbliche, e sono strapiene di studenti. Quelle private non sono ancora a livello delle vostre. Così io aspetto. Sono sicura che l’Italia e il mondo ce la faranno a superare questo momento».
Momentaneo cambio di programma anche per una giovane italiana, la 23enne Anita Calchi Novati che da metà febbraio si trova a Thiès, in Senegal, come stagista per l’ong LVIA: «Il mio stage doveva terminare a maggio, ma io vorrei rientrare in Italia e aspetto che l’ambasciata organizzi un volo. Al momento tutti i nostri progetti sul campo sono bloccati e l’Ong per la quale lavoro ci ha chiesto di stare in casa: non ha senso che io resti qui. C’è il coprifuoco e ci è già successo di essere fermati dalla polizia. E poi qualche giorno fa è accaduta una cosa spiacevole: per la strada dei ragazzini al posto di chiamarmi, come capita, “toubab” (che vuol dire “bianca”) mi hanno gridato: “Coronavirus! Tornatene a casa tua!”. E forse hanno anche ragione: è il momento di andare. Per tornare di nuovo, quando tutto sarà finito.
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