Perché in Africa la pandemia non si è trasformata in un'ecatombe

by Amref Health Africa

AGI – La pandemia di coronavirus ha colpito l’Africa. In molti avevano ipotizzato un’ecatombe, ma non c’è stata. I sistemi sanitari dei vari paesi del continente sono precari, insufficienti a sopportare un’ondata di contagio. A ragione, in molti, pensavano che questo avrebbe portato a un numero di contagi ma, soprattutto, di decessi enorme. Ma così non è stato. I catastrofisti della prima ora sono stati smentiti.

Certo i problemi e le fragilità sono enormi, tuttavia, molti paesi africani sono stati in grado di far fronte al coronoavirus spesso in modo molto efficace, come il Senegal che è stato giudicato il secondo paese al mondo per capacità di contrastare la pandemia. Ora l’Africa è di fronte, come tutto il mondo, alla sfida dei vaccini, ma il rischio è che rimanga buon ultimo in questa lotta. I vaccini non sono ancora arrivati. Di questo, e molto altro, ne abbiamo parlato con Guglielmo Micucci, direttore generale di Amref Health Africa-Italia, che proprio oggi ha annunciato la fusione con un’altra Ong italiana, il Ccm-Comitato Collaborazione Medica.

Partiamo subito da una considerazione: l’ecatombe che a inizio pandemia si pensava accadesse in Africa non c’è stata. I catastrofisti sono stati smentiti. Questo è merito dell’Africa o della debolezza della pandemia che ha colpito il continente?
“È vero, l’ecatombe di cui si parlava ad inizio pandemia, e a cui si pensava che l’Africa sarebbe andata incontro, non c’è stata. Penso tuttavia che questo non sia stato determinato da un singolo fattore, ma che sia dovuto ad un’ampia serie di elementi. C’è da considerare che mentre l’Italia, in quanto primo Paese occidentale ad essere contagiato, è stata colta impreparata, il breve lasso di tempo che c’è stato tra lo scoppio della pandemia e la prima ondata africana, ha lasciato alla maggior parte dei governi africani il tempo di prendere le giuste precauzioni. Un ulteriore fattore da considerare nell’analisi del contagio limitato nel continente africano è l’età media. In Africa, nonostante l’elevata variabilità, l’età media è di circa 19 anni, e nell’Africa Subsahariana circa il 40% della popolazione ha meno di 15 anni e soltanto il 5% più di 60: questo potrebbe aver aumentato i casi di positivi asintomatici e i casi con sintomi meno violenti. È inoltre probabile che i numeri reali siano superiori a quelli dichiarati, per difficoltà di riconoscimento e monitoraggio del virus. Ciò detto, è necessario sottolineare che non esiste una motivazione cristallizzata o una risposta monolitica al perché del contagio limitato, ma esiste un ampio ventaglio di consapevolezze”.

In Africa ci sono paesi virtuosi e altri meno. Alcuni hanno affrontato la pandemia con determinazione, come il Senegal, altri l’hanno utilizzata per imporre restrizioni per mettere il bavaglio alle opposizioni e questo si è verificato in quei paesi che sono andati a elezioni. Cosa ne pensa?
“Questo è il grande pericolo di questo percorso. Quando si vive in uno stato di emergenza, un governo è legittimato a ridurre, in maniera temporanea o permanente, dei diritti. Penso, per esempio, alla semplice libertà di movimento. In occidente, sappiamo che il nostro stato di diritto tornerà ad essere quello che era e anche per questo accettiamo, consapevoli della necessità delle limitazioni imposte, ciò che ci viene richiesto. In Africa, tuttavia, esistono diversi casi in cui il rischio di retrocedere in maniera duratura nell’ambito dei diritti che si stavano raggiungendo, con la scusa della competente sanitaria, è alta. Una legittimazione a ridurre la libertà dei cittadini, in contesti in cui lo stato di diritto è ancora molto fragile, purtroppo può essere estremamente pericolosa”.

L’Africa ha dimostrato una certa resilienza di fronte alla pandemia. Secondo lei quali sono stati i fattori, anche creativi, che hanno permesso al continente di non essere travolto dalla pandemia?
“Non si può dire che questa sia una fortuna, ma sicuramente l’aver attraversato, in tempi recenti, altre epidemie, ha permesso ad alcuni Paesi africani di non essere travolti dalla pandemia, ma soprattutto di non essere colti impreparati. Penso soprattutto ad Ebola, un’epidemia per la quale molti Paesi dell’Africa occidentale hanno, negli anni, disposto un modello di preparazione simile a quello per COVID-19, e questo può aver aumentato la capacità di risposta”.

A suo giudizio quali sono stati i paesi che hanno dato maggior prova di determinazione nell’affrontare la pandemia?
“Più di un Paese del continente africano ha affrontato concretamente ed efficacemente l’emergenza. Il Senegal, per esempio, ha dimostrato una gestione coesa della situazione di crisi, coinvolgendo i governi, gli individui e le comunità, e raggiungendo dei traguardi notevoli. Anche il Sudafrica, che sta vivendo ora un momento estremamente difficile a causa della variante 501.V2, ha dimostrato da subito un’ottima capacità di risposta. I numeri rilevati in Sudafrica sono stati, da subito, molto più alti rispetto ad altri Paesi; un esempio di un’elevata capacità di riconoscimento e monitoraggio del virus. Molti altri Paesi, nonostante abbiamo ottenuto risultati e traguardi meno considerevoli, hanno dato prova di altrettanta determinazione”.

La catastrofe che molti pronosticavano, non c’è stata. Cosa può insegnare l’Africa all’Occidente più ricco?
“Più che sottolineare ciò che l’Africa può insegnare all’Occidente, credo che sia fondamentale evidenziare l’importante principio che la pandemia ha insegnato ad alcuni, e ricordato a tutti: quello dell’uguaglianza. Il COVID-19 ci ha ricordato che siamo figli dello stesso pianeta e ci ha insegnato il principio di una salute globale. Una cosa che accade in Cina o altrove si può riverberare ovunque, e questo è il nodo da cui è nata una battaglia comune: trovare rapidamente un vaccino. Bene, ora sconfiggiamo il COVID-19, ma mentre lo facciamo, e soprattutto dopo averlo fatto, non dimentichiamoci questi insegnamenti. Ci sono malattie facilmente debellabili che, se fossero gestite con il medesimo spirito universale, si potrebbero eliminare. Se oggi il COVID-19 ci ha fatto scoprire una salute globale, ci auguriamo che anche la lotta ad altre malattie lo diventi”.

Secondo lei, la cooperazione tra ONG e Stati ha funzionato nell’affrontare la Pandemia?
“Penso di sì. Mi baso anche sull’esperienza di Amref, che ha dimostrato l’efficacia della cooperazione tra ONG e Stati. Amref, con molte istituzioni, ha da tempo una relazione precostituita e funzionale. Ma al di là della nostra esperienza, mi sento di dire che in molti Paesi, l’arrivo del COVID-19 ha creato talmente tanto terrore e sgomento che ha chiamato a raccolta le migliori risorse dei rispettivi Paesi, e ha fatto in modo che anche il rapporto tra gli Stati e le ONG – che non sempre è funzionale – si solidificasse. Ho notato un desiderio ed una necessità collettiva di rimboccarsi le maniche, senza mai sovrapporre ruoli. Grazie a questa collaborazione si è infatti riusciti a creare una risposta sistematica e coerente”.

L’Africa ora deve affrontare la sfida dei vaccini. Le vaccinazioni non sono ancora partite e il continente rischia di rimanere buon ultimo su questo fronte. E il problema sarebbe grave vista la crisi economica e le “varianti del virus” che si sono sviluppate, per esempio in Sudafrica.
“Il fatto che il continente africano rimarrà ultimo su questo fronte non è un rischio, purtroppo, ma una certezza. Gli accordi che i Paesi Occidentali hanno preso in merito ai vaccini hanno quasi pienamente saturato le linee di distribuzione e le varie aziende che li producono. E di conseguenza, è presumibile che i Paesi africani si rivolgeranno alla Russia o alla Cina per la fornitura di vaccini, andando in questo modo ad amplificare la preesistente dipendenza e la potenziale sudditanza che i Paesi africani hanno nei confronti, soprattutto, della Cina. I Paesi africani già in debito con la Cina rischiano quindi di precipitare in una dipendenza permanente, a causa di una necessità talmente imminente da non poter essere ignorata. Come dichiarato dall’OMS, in materia di approvvigionamenti, sarebbe necessario infatti interrompere gli accordi bilaterali a danno del Covax, il programma istituito insieme all’organizzazione internazionale per i vaccini, per assegnare i lotti a 92 Paesi a basso e medio reddito. Da una parte c’è quindi l’aspetto sanitario, e dall’altra l’aspetto geopolitico, altrettanto difficoltoso”.

Infine, oggi lanciate una fusione tra la vostra organizzazione e un’altra ONG italiana. In un mondo spesso diviso, questa fusione cosa racconta al mondo della cooperazione?
“Questa fusione, tra Amref e CCM, racconta che ci si può mettere insieme senza entrare in competizione. Racconta che ci si può unire in maniera diversa, che non sono utopie, che si può fare senza tagliare i costi, creando valori aggiunti e non levandone. Racconta di due realtà che mettendosi insieme dimostrano che una fusione significa provare davvero a fare di più e a farlo meglio. Perché ci permette di essere più forti, di ampliare l’impatto delle nostre azioni e di dare maggiore voce alle persone a cui ci rivolgiamo. Questo percorso racconta anche che bisogna essere pronti a lasciare indietro piccoli pezzetti di sé per una maggiore stabilità e sicurezza futura. Spero tanto che altre realtà possano prendere spunto. Spero che Amref e CCM abbiano dimostrato che si può fare”. 

Article first published on agi.it

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