Stiamo prendendo in giro i paesi più poveri del mondo. Con il programma di cooperazione internazionale Covax avevamo promesso di distribuire all’Africa due miliardi di dosi entro la fine del 2021 e finora ne sono arrivate solo 325 milioni: «Un vaccino in ritardo è un vaccino negato», ci ha detto Githinji Gitahi il direttore di Amref, la più grande e importante ong africana che si occupa di salute, intervistato da PresaDiretta nel suo ufficio di Nairobi, «perché se i vaccini arrivano troppo tardi, muoiono persone che avrebbero potuto essere salvate».
Ma stanno andando male anche le donazioni, annunciate dai grandi del mondo al G7. Avevano promesso più di un miliardo di dosi, ma meno del 15 per cento sono state effettivamente consegnate e di queste solo il tre per cento sono donazioni vere e proprie.
Il risultato è che in Africa solo il tre per cento della popolazione è stato vaccinato e rimane fuori ancora più della metà della popolazione mondiale: stiamo parlando di oltre tre miliardi di persone che non hanno mai incontrato un vaccino anti Covid .
Questa è la dimensione del problema che ci coinvolge tutti, perché non potremmo mai eradicare questa pandemia se non allarghiamo la platea dei vaccinati.
A dicembre si svolgerà una importante conferenza internazionale presso l’Organizzazione mondiale del commercio a Ginevra. All’ordine del giorno ci sarà, appoggiata da oltre 100 paesi in via di sviluppo, la proposta di sospensione dei brevetti e di tutti i farmaci e i device che servono per combattere la pandemia.
Ma a questa idea si sono dichiarati contrari Unione europea, Regno Unito, Svizzera, Norvegia e Giappone. «Dobbiamo trovare in fretta il modo di aumentare la produzione nel mondo perché la gente sta morendo e la malattia è ancora dilagante», ci ha detto Ngozi Okonjo Iweala, la prima donna e la prima africana alla guida dell’Organizzazione mondiale del commercio, «dobbiamo consentire a paesi come il Sudafrica, Pakistan, Bangladesh, Indonesia e Senegal che hanno una grande capacità manifatturiera di poter produrre i vaccini, liberalizzando i brevetti e trasferendo le tecnologie».
Se da noi assistiamo ad una diminuizione del contagio, nel resto del mondo il Covid avanza con ondate tumultuose che lasciano dietro di sé migliaia di morti. Lunedì 11 ottobre, a PresaDiretta vi racconteremo il disastro dell’India, dove un anno fa è emersa la variante Delta, molto più contagiosa di quella che abbiamo conosciuto durante la prima ondata.
Quando è apparsa per la prima volta il tasso di vaccinazione era ridicolo, del miliardo e 300 milioni di abitanti solo il sei per cento degli indiani si era vaccinato e tra aprile e maggio scorsi il paese è stato travolto da un’ondata di contagi devastante. Morivano quattromila persone al giorno e scarseggiava tutto: ossigeno, medicinali, letti in ospedale, posti in terapia intensiva.
Il paradosso che fa veramente rabbia è che l’India possiede una industria farmaceutica di tutto rispetto. Ma l’unica grande azienda indiana che produce vaccini, la Serum, lo fa su brevetto AstraZeneca, ai loro prezzi di listino, troppo alti per i paesi in via di sviluppo.
«L’Asia è il cuore della manifattura farmaceutica, la maggior parte delle materie prime arriva da qui e l’India è certamente in grado di produrre qualsiasi medicinale biologico complesso, compresi i vaccini a Rna», quasi grida ai nostri microfoni Leena Menghaney della sezione indiana di Medici senza frontiere, «il vero problema è che le compagnie farmaceutiche detengono brevetti e segreti industriali per impedire ogni concorrenza, così non permettono ad altre aziende di produrre. Vogliamo porre fine alla pandemia ora o dopo che milioni di persone sono morte?».
Bella e drammatica domanda, che ci porta dritti dritti nel cuore di questa storia: stiamo trattando meta del mondo come cittadini di seconda classe, accettando che continuino a morire centinaia e centinaia di migliaia di persone per una questione di brevetti e di trasferimento tecnologico.
Certo, i soldi in ballo sono tanti, per il 2021 Pfizer prevede un fatturato di 33 miliardi di dollari solo dalle vendite del suo vaccino, Moderna sfiora i 20 miliardi e i prezzi delle dosi di vaccino sono destinati ad aumentare. Lo ha detto chiaro e tondo Frank D’Amelio il responsabile finanziario di Pfizer l’11 marzo di quest’anno: «Mano a mano che passiamo da una situazione pandemica a una endemica, il prezzo sarà dettato non più da condizioni straordinarie di emergenza, ma dalle normali forze di mercato. Questa, molto francamente, è una significativa opportunità commerciale per il nostro vaccino, data l’efficacia clinica dimostrata».
Alcune proiezioni parlano di un aumento del prezzo del 900 per cento, da 21 a 175 dollari a dose. Chi ha vinto la gara scientifica e tecnologica per produrre su larga scala vaccini efficaci oggi ha un monopolio, che difende con tutte le forze perché ha fatto la fortuna dei suoi azionisti: solo Pfizer, Johnson&Johnson e AstraZeneca negli ultimi 12 mesi hanno pagato 26 miliardi di dollari in dividendi, secondo Oxfam America, una somma con cui si potrebbero vaccinare 1,3 miliardi di persone.
E l’industria farmaceutica italiana? Alla gara internazionale per la realizzazione di un vaccino non ha neanche partecipato, sono infatti decenni che non produciamo principi attivi e ci limitiamo a produrre i brevetti degli altri.
Del resto siamo un paese che, come ci ha detto Silvio Garattini, «spende per la ricerca di base una inezia e ha la metà dei ricercatori di Francia e Germania».
E il “vaccino tricolore”, Reithera, tanto annunciato, che fine ha fatto? Anche a questa domanda daremo una riposta, in un viaggio nel mondo della ricerca farmaceutica italiana di cui finalmente , con lo scoppio della pandemia, abbiamo compreso l’importanza. Tutto questo ne La fabbrica dei vaccini, lunedì 11 ottobre alle 21 e 20 su Rai Tre.
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