L’Uganda è il terzo Paese al mondo ad ospitare il più alto numero di rifugiati, dopo la Turchia e il Pakistan: erano 1.276.208 a maggio 2019, circa il 65% provenienti dal Sud Sudan (dati Unhcr). Da lì arrivano i maggiori flussi d’ingresso, che in questi mesi sfiorano il raddoppio, con 205 ingressi al giorno a maggio, 140 il mese precedente. Eppure l’Uganda è uno dei pochi Paesi a mettere in pratica un approccio “refugee-friendly”, che non chiude le porte a chi fugge da conflitti e persecuzioni. A parlarne al Sir, di passaggio a Roma, con breve tappa a Lampedusa, è Abenet Leykun Berhanu, direttore di Amref Health Africa in Uganda. Il governo ugandese accoglie richiedenti asilo e rifugiati nonostante le risorse raccolte dagli aiuti internazionali siano la metà di quelle necessarie, a fronte di una carenza di infrastrutture socio-sanitarie di base.
Un piano nazionale per l’accoglienza. “C’è una strategia nazionale di accoglienza che prevede una spesa complessiva di 1,7 miliardi di dollari – spiega Berhanu -. Il programma dovrebbe essere finanziato dalle agenzie delle Nazioni Unite, dai governi, dalle organizzazioni non governative. Invece la risposta all’appello non supera finora i 900 milioni di euro. Perciò bisogna fronteggiare una grande emergenza con risorse insufficienti”.
Malgrado ciò le politiche di accoglienza ugandesi rappresentano quasi un caso unico:
qui i rifugiati hanno scuola e sanità gratuita, possono lavorare e avere a disposizione terra da coltivare.
“L’Uganda è stato tra i primi Paesi ad aprire le frontiere, ed ha sempre dimostrato una certa sensibilità, con un approccio mirato all’integrazione”. E’ ovvio che, dal suo punto di vista, la visione di una Europa fortezza lascia molto perplessi. “Chiudere le frontiere non è una soluzione duratura – osserva il direttore di Amref Uganda -. Bisogna affrontare le cause che danno origine alla migrazione forza. Inoltre una politica di porti e frontiere chiuse va contro i principi umanitari ed è controproducente per la società da un punto di vista economico. I migranti contribuiscono a produrre ricchezza nel Paese in cui vengono accolti”.
In Uganda ci sono 40 campi profughi ma la maggior parte dei rifugiati vivono fianco a fianco con la popolazione locale, in piccole comunità rurali. Vige una sostanziale armonia, anche se piccole tensioni tra poveri possono inevitabilmente scatenarsi, specie quando c’è chi riceve aiuti e chi no. Per questo motivo l’approccio di Amref Health Africa, presente in Uganda dal ‘98, è centrato sull’inclusione di tutta la comunità. In uno dei distretti dove opera, ad Aura, c’è il
Rhino camp, uno dei campi per rifugiati più grandi del mondo, con circa 120.000 persone. L’82% dei sud sudanesi sono donne e bambini
ma ci sono anche migliaia di persone in fuga dal conflitto nella Repubblica democratica del Congo, dalle persecuzioni in Burundi, dall’instabilità in Somalia e in Rwanda. All’interno del campo Amref gestisce un ambulatorio che offre diversi servizi, anche se la caratteristica dell’organizzazione è “non sostituirsi mai alle strutture sanitarie ma affiancare quelle già esistenti, rafforzandole e lavorando alla formazione del personale”. “Il contesto emergenziale dato dai grandi flussi di rifugiati può erodere le capacità infrastrutturali di un Paese – spiega Berhanu -. Perciò il nostro approccio alla sanità è ampio. Oltre alle attività in servizio diretto, come l’ambulatorio, il nostro personale medico si muove, laddove c’è bisogno, per fare screening e consulti nelle zone più remote. Lavoriamo per portare acqua e servizi igienici, per prevenire polmonite, malaria e Hiv/Aids, per garantire servizi essenziali alle donne e ai minori, soprattutto l’ostetricia, in un Paese con tassi di natalità altissimi e altrettanto rischio di mortalità infantile”.
Pochi operatori sanitari a fronte di bisogni sanitari crescenti. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità un giusto rapporto tra operatori sanitari e popolazione sarebbe di 4,5 ogni 1000 persone. In Uganda è di 0,50 ogni 1000 persone. Oltretutto molti servizi sanitari sono a pagamento e le persone quando di ammalano sono costrette a vendere la casa, il bestiame, per affrontare le cure mediche. Per questo Amref sta pensando di sperimentare anche in Uganda, che ha bisogni sanitari crescenti, un sistema innovativo già attivo in Rwanda: una sorta di sanità integrativa pubblica per cui le persone accantonano dei fondi che potranno poi utilizzare solo per le spese sanitarie. “In cambio il governo farà investimenti in quelle comunità”, conclude Berhanu.
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